martedì 25 marzo 2008

Food in Traslation

E' raro leggere nei racconti di viaggio, anche in quelli moderni, che cosa mangia la gente; eppure il cibo in Asia è ancora uno dei grandi piaceri. La varietà è grande, il modo di prepararlo è ancora semplice, e gli odori e i colori fanno parte della gioia quanto i sapori. Ogni piatto a poi quel suo speciale valore magico che rende il mangiare ancora più attraente. Una cosa fa bene al fegato, una alla circolazione del sangue. Un frutto riscalda, uno raffredda, mentre tante cose fanno bene al sesso, ossessione comune a tutti i popoli di questa parte del mondo.
(Un indovino mi disse, Tiziano Terzani, pag 226)

Questo diario narra il viaggio intrapreso da Tiziano Terzani, giornalista e inviato in Asia del Der Spiegel, nel 1993 quando seguendo le indicazioni di un indovino di Hong Kong decise di non volare per un intero anno. Costretto perciò a spostarsi utilizzando mezzi molto più lenti e a volte difficilmente reperibili, Terzani scopre la possibilità di conoscere più profondamente un continente in trasformazione, ma con radici antichissime, di osservare e registrare il lento suicidio di tradizioni e ecosistemi soppiantati da uno slancio verso il moderno e il progresso molto poco lungimirante e socialmente sostenibile. L'immagine dei paesi visitati dal giornalista risulta straordinariamente attuale nonostante questo resoconto sia stato scritto più di dieci anni fa. Simpatica ma allo stesso tempo inquietante è l'idea che emerge potente dalle pagine dedicate a Singapore e alle maggiori città asiatiche travolte da una speculazione edilizia ed economica, guidata per lo più da potenti enclave siniche costrette all'esilio. Il desiderio spasmodico di questi paesi a diventare moderni e occidentali, e perciò appetibili per il modello europeo-americano, suona sinistramente troppo attuale. Uccidere il vecchio per imitare il nuovo, un mantra che sembra essersi diffuso ormai in tutta l'Asia. E nonostante quasi tutte le riflessioni di Terzani possano essere tranquillamente usate come chiave per leggere il presente, proprio la parte che riguarda il cibo è cambiata. Se fino a un decennio fa questa caratteristica culturale era considerato un elemento di secondo piano, oggi è diventata una discriminante di grande rilievo. Negli ultimi anni si è assistito a una vera e propria rivoluzione nei costumi nazionali in relazione al cibo. Se all'uscita degli anni ottanta e dalla tradizione anglo-americana dei fast food si era imposta una cucina estremamente sofisticata e ingabbiata in regole di forma, struttura, sapore, dimensioni e proporzioni che di fatto escludeva i comuni mortali dal tempio della gastronomia, oggi si sta riscoprendo una gastronomia che si allaccia fortemente ai piatti tradizionali del territorio, riesumando sapori e ricette che si stavano perdendo. E se gli chef poi reinterpretano, destrutturano, rielaborano, la base da cui partono sembra essere il ricettario della nonna. Questa sorta di nazionalismo culinario, che vede l'utilizzo di prodotti locali e di alta qualità, è poi stato pesantemente sponsorizzato grazie alla nascita di canali mediatici dedicati esclusivamente all'enogastronomia. Sono nati i primi foodblog, i libri e le guide si sono moltiplicate, sono stati costruiti veri e propri tempi del cibo ( si veda eataly), sono stati riservati canali satellitari alle trasmissioni relative alla cucina. La Signora Maria, tanto per citare uno degli chef che preferisco, si è trovata così circondata da input per variare un bagaglio di tradizione senza però sconvolgerne i principi fondanti. E se tutto questo è sotto molti punti di vista meraviglioso (io per prima sono una drogata di Gambero rosso Channel, Anthony Bourdain, food blog vari e riviste di cucina), è anche qualcosa che dovrebbe far riflettere. Il cibo è da sempre simbolo e riflesso dei valori culturali intrinsechi di un popolo. Da ciò che viene cucinato è possibile evincere la ricchezza di un paese, il suo grado di sviluppo e ricchezza, le sue risorse e l'influenza delle varie minoranza sul suo territorio. Questo rivisitazione delle ricette tradizionali rispecchia forse la necessità di riscoprire una propria identità, messa in discussione negli ultimi anni da una globalizzazione indistinta che aveva coinvolto anche il gusto e il cibo. E così ecco ricomparire sulla nostre tavole piatti strettamente legati alla territorialità, che puntano non solo a riportare in auge sapori antichi, ma anche una produzione alimentare più attenta agli sprechi, alla stagionalità e alla qualità. Usando un'espressione inglese che calza a pennello la nostra tavola sta tornando down to earth e questo non è per niente male.

2 commenti:

  1. Ciao Fra! Anche io sono drogata di Anthony Bourdain, non ho il Gambero Rosso Channel...meno male altrimenti starei appiccicata tutto il giorno davanti lo schermo :) Bacioni

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